
Il due o il quattordici?
- Stefania Faccioli
- 15 apr
- Tempo di lettura: 3 min
Non so se fosse più confuso il cielo di Milano o io, quel venerdì di aprile caldo e con un cielo meraviglioso, attraversato da nuvole leggere come pensieri che non si decidono a prendere forma. Milano, in certi giorni, sa essere struggente. Ti confonde con la sua luce morbida e un’aria che profuma di glicine e nostalgia, come se la città stessa avesse deciso di rallentare, almeno per un po’.
Aspettavo il tram. E non ricordavo più quale. Il 2 o il 14? Uno mi avrebbe portata dalla parte giusta, l’altro probabilmente in una deviazione esistenziale degna di un film francese, uno di quelli con silenzi lunghi, dialoghi sussurrati e una malinconia elegante. E siccome sono dell’epoca in cui per sapere le cose si chiedeva, ho deciso di ignorare Google Maps (che mi parlava con l’arroganza di chi pensa di sapere tutto) e anche la Mappa di Apple (che sembrava più interessata a farmi raggiungere un brunch modaiolo che la mia destinazione reale).
Così ho fatto la cosa più milanese possibile… d’altri tempi: ho chiesto.
Con quella fiducia semplice di chi crede ancora che una risposta detta a voce valga di più di mille notifiche.
Il primo a rispondermi è stato un ragazza, con le cuffiette nelle orecchie e l’aria da “non sono di qui ma ci sto benissimo”. Mi ha detto in inglese: “Sorry, I think the green tram? Or maybe red line?”
Ho sorriso, ringraziato. E intanto mia figlia, a fianco a me, ha sollevato appena lo sguardo dallo schermo. Uno sguardo tra l’ironico e il tenero, che diceva tutto: “Mamma, davvero? Ancora con questa cosa di parlare alla gente?”
Sì, ancora. Sempre.
Il secondo tentativo è stato più incoraggiante: una coppia di mezza età, gentile, sguardo aperto, passo lento da camminatori della domenica. “Andiamo a trovare nostro figlio, abita qui vicino… Noi però non siamo di Milano. Ma ci pare che il 14 vada bene.”
Un altro sorriso, un altro grazie.
E poi, come accade solo quando il tempo si apre e tu decidi di farti attraversare dalla città… sono comparsi loro.
Due signori. Una coppia milanese vera.
Di quelle che non si vedono più tanto in giro. O forse sì, ma bisogna rallentare per notarli.
Lei, capelli corti, sguardo limpido, un’eleganza semplice e disarmante, fatta di tessuti buoni e gesti misurati. Parlava come chi ha molto vissuto ma non ha smesso di meravigliarsi.
Lui, stempiato, bastone alla mano, camminava con passo lento e dignitoso, come si cammina quando si è ancora profondamente dentro la propria città. Aveva un modo di stare al mondo che oggi sembra quasi estinto: solido, educato, radicato.
“Hanno cambiato tutto, sa. Un tempo qui passava il 19. Poi il 2, poi il 14. Ma se deve andare verso Porta Genova, prenda il 2. È quello giusto.”
Giusto. Ma giusto in che senso?, ho pensato. Per la destinazione o per la conversazione?
E come succede quando incontri le persone giuste, quelle che non hanno fretta e che sanno ancora fermarsi — hanno iniziato a raccontare.
Hanno parlato dei Navigli di una volta. Quelli quieti, quasi assopiti, quando non c’erano i dehors ma le sedie di legno, le biciclette appoggiate ai muri e le saracinesche chiuse la domenica.
“Durante la Domenica delle Palme – dice lei – c’era la processione. Ci andavamo con le palme intrecciate, le vere, quelle con l’ulivo fresco. Il profumo ti restava addosso tutto il giorno.”
Ha fatto una pausa, guardando lontano.
“Domenica c’è il mercatino dei fiori. Bello, sì, ma…”
E in quel “ma” c’era tutto il peso dolce della memoria.
Lui ha annuito piano.
“Ma non è la stessa cosa,” ha concluso, con uno sguardo che si è posato sull’acqua come un ricordo.
Poi, quasi sottovoce, come se stesse svelando un segreto, mi ha detto:
“Alla sera, mettevano i lumini sull’acqua. Piccoli, uno dopo l’altro. Li lasciavano andare. Scivolavano via, fino a Pavia. Sembrava che il Naviglio si mettesse a parlare con le stelle.”
E lì, in quel momento, tutto si è fatto più lento.
Più profondo.
Mia figlia, accanto a me, taceva. La osservavo mentre ascoltava, senza farsi vedere.
Forse si chiedeva come facessi a chiacchierare con perfetti sconosciuti.
O forse no.
Forse stava solo registrando, nel suo modo nuovo, veloce, silenzioso, questo frammento di umanità fragile e preziosa.
Un frammento di Milano che sembrava improvvisamente tornata quella di una volta.
E il tram?
Forse è arrivato.
O forse no.
Ma in quell’istante non importava.
Perché Milano non correva.
Milano si fermava.
E io, per una volta, anche.
Questa è la Milano che amo.
Quella che non si fotografa, ma si ricorda.
Quella che arriva quando meno te l’aspetti, e ti regala una carezza.
Come il cielo, quel giorno. Confuso. Meraviglioso. Innamorato.
Comentarios